domenica 8 gennaio 2017

The Freexielanders «Looking Back, Playing Forward», ovvero, Inventare Nuovi Ricordi


Certo, per iniziare degnamente il nuovo anno, avrei dovuto parlare della mia indiscutibile classifica Top - essenziale ai più -, o del perché le riviste di Jazz chiudono senza lasciare traccia - e del percome quelle che rimangono impilate ad imputridire, non puzzano ancora -. Avrei dovuto indagare sul segreto di "restare originali" nonostante il successo, oppure avrei dovuto fare luce sulle infinite vie del nuovo jazz, che nuovo non è - e nemmeno jazz -, ma allora cos'è?!?
Invece me ne sto qui, a raccogliere briciole di emozioni, a seguire mollichelle per ritrovare la curiosità, ad ascoltare storie che non sapevo ed a ricordare cose che non ricordavo di ricordare...

Insomma, senza tante pippe vi assicuro che la musica uno può godersela alla grande.


E sì, perché quale altro sentimento può nascere dalla relazione - per molti impossibile, per altri platonica, per alcuni incestuosa - tra il piano rag di Scott Joplin ed il trombone slide di Giancarlo Schiaffini?
Sapevate che Fred Rose, cantautore di Nashville, e Jelly Roll Morton, "inventore" del jazz di New Orleans in realtà sono fatti uno per l'altro?
Avevate mai raccolto la confidenza che la musica di Misha Mengelberg - figura storica della scena improvvisativa contemporanea - andasse a braccetto con il mood tipico delle colonne sonore della Commedia all'Italiana?


Inventare nuovi ricordi non solo si può, sembrano dire The Freexielanders con il loro «Looking Back, Playing Forward», pubblicato per la Rudi Records di Massimo Iudicone, ma si deve, aggiungo io. E quando succede beh, è amore al primo ascolto...


Ora qualcuno penserà che è un altro modo per "buttarla in caciara", per confondere l'alto con il basso, il qui con il là ed il pro con il quo,  ma già i curricula dei musicisti dovrebbero fare da garanti, dal momento che parliamo di una formazione che racchiude il top degli improvvisatori contemporanei di almeno due generazioni - quantomeno della scena romana - come Giancarlo Schiaffini, Eugenio Colombo, Gianfranco Tedeschi, Alberto Popolla, Errico De Fabritiis e Francesco Lo Cascio tra gli altri.


Anche la scaletta segue un filo coerente, elaborando per lo più tracce che sono state scritte e arrangiate negli anni ’30, o che sono nel DNA degli esecutori, nonostante ai protagonisti piaccia raccontare che «tutto nasce dal ritrovamento casuale di un pacco di partiture poco conosciute in vendita in un mercatino delle pulci di una qualche città europea, rimaste impolverate per tutto questo tempo ed oggi nel pieno di una crisi, che a detta di molti ricorda quella del ’29, hanno trovato un richiamo irresistibile».


Potrei raccontarvi che il disco si apre con un intenso medley che racchiude "St. James Infirmary" a "Gotta get to St. Joe" e ricordarvi che il primo è un pezzo tradizionale di anonime origini (nonostante l'attribuzione a Joe Primrose) reso famoso da Louis Armstrong nel 1928, mentre lo swingante pezzo di Joe Bishop a me ha ricordato la forma impressa da Woody Herman e la sua Orchestra nel '42. Ma non è questa la vera forza dell'incipit: musica triste e musica allegra, Wasp music e Black music, tutto confluisce nel grande fiume della musica bella.
Questa la vera intro, per chi è capace di ascoltare.


Poi si prosegue con uno dei pezzi più "vecchi", "On the Banks of the Wabash" di Paul Dresser (1897), che sembra tagliato apposta per l'ottetto che risuona come un corpo unico, screziato dal vibrafono di Lo Cascio, attualizzato dalla voce scoppiettante di Eugenio Colombo e definitivamente iconizzato dal solo di Errico De Fabritiis, ma anche questa sarebbe una formale pista falsa, almeno finché non si scorgono le prime luci del terzo pezzo e la nebbia della ragione comincia a diradarsi.


E sì, perché il terzo pezzo è forse quello più spontaneamente naturale, oltreché il più attuale, essendo "Peer’s Country Song" già presente nel "Live in Soncino" della ICP Orchestra del 1979, primo incontro tra il pianista ucraino/olandese con Schiaffini e Colombo (e con Rava, Trovesi e Renato Geremia, tra gli altri). Citare Mengelberg, ed indirettamente omaggiarlo, è un'affermazione d'intenti valida anzitutto per ribadire l'importanza del collettivo ma anche una dichiarazione d'amore per questo musicista unico. 


Lo stesso amore che, senza remore o steccati mentali, viene mostrato per Duke Ellington che, con "Come Sunday" e "Mood Indigo", firma i due pezzi successivi, nell'arrangiamento prezioso di Schiaffini. Cos'altro dire di questi due pezzi... forse la cosa più vera è anche la più semplice e cioè che, fra tutti, sembrano quelli suonati direttamente con il cuore, piuttosto che con altri muscoli.


In mezzo c'è l’affascinante e profumato "Voci del Deserto" del misconosciuto Felice Montagnini, che in realtà ha dato voce dietro le quinte ad una miriade di film diretti da Nunzio Malasomma, Comencini, Mattoli e Steno, tra gli altri. Atmosfera magica offerta dall'ensemble in call and response con il trombone di Schiaffini che, grazie ad un groove portante impartito dal contrabbasso di Gianfranco Tedeschi, permette al collettivo momenti di empatia unica ed a Popolla e Colombo un intenso quanto sinuoso scambio melodico (cit. da Gaia Critica).


Ora un critico serio direbbe che "la registrazione prosegue con raro dinamismo col foxtrot di Fred Rose "Black Maria" (1930) che, a dispetto della nota ballabile cantabilità, si presenta come un collettivo infuocato e frastagliato". Io vi posso solamente dire che il pezzo in questione non ci mette molto a scatenare irresistibilmente il battere del mio piede.


Segue "Yardbird Shuffle" di James A. Noble (1941), sbilenca eppur dolce come non era immaginabile fare, sfaccettata da brevi assoli dei quali, su tutti, si staglia il clarinetto di Alberto Popolla, fino ad arrivare a "Cannonball Blues" di Jelly Roll Morton (1926), arrangiata da Eugenio Colombo, introdotta da un Tedeschi in tutt'uno col suo strumento.


"Sabor de Habanera" di Giancarlo Schiaffini potrebbe essere la degna conclusione, ‘ché rimarca una comune e possibile influenza latina di tanti brani di quel periodo - o comunque di molti degli amori di questo combo -. Sensuale l'apertura al tenore di De Fabritiis, che Colombo evidenzia ma non salva dallo struggente l'assolo al clarinetto basso di Popolla, il tutto senza mai perdere il gusto più solare che c'è all'origine di questa danza. A me ha scaldato il cuore…


Così come si è aperto, il disco viene suggellato dall'impetuosa "The Great Crush Collision March", che è il pezzo più indietro nel tempo che i Freexielanders sono andati a scovare, dal momento che fu scritta da Scott Joplin nel 1896 e che racchiude tanto della squisita pazzia di questo progetto e della mai banale ironia dei suoi "architetti".
Si inizia con la "rigida" cadenza tipica della marcia, che trasmuta poi nella veloce sincope del ragtime - ed offre emozionali spunti riflessi di un ballo di Paese alle mie orecchie - per concludersi poi nella follia cacofonica di uno scontro indimenticabile.

Mo, ditemi che ero solo io a non conoscere questa storia…


Certo, per iniziare degnamente il nuovo anno avrei dovuto darmi un tono, invece me ne sto qui in pigiama e ciabatte a godere come un porco nel vedere la Sig.ra Semplicità prendere da dietro Mr. Storiaricca, con tanto di preliminari ma senza precauzioni mentali.


Ma non è tutto qui, ed anzi mi scuso con i Freexie della mia banale interpretazione del loro più strutturato lavoro, non solo perché il disco nasconde anzitutto una Malus Track che vi invito a scoprire, e dal vivo il gruppo ha già approcciato altri temi come "Bye Bye Blackbird" di Ray Henderson, "Li'i Darlin" di Neal Hefti, "Java Rossa" di Angelo Ramiro Borrella, "Siboney" di Ernesto Lecuona – e chissà quanti altri saranno già stati riscoperti dalla polvere ed aspettano solo di essere suonati - ma, come si dice, è sempre meglio alzarsi da tavola con un po' di fame, per cui...



Sì, lo sentivo già ma ora ne sono certo. Si possono abbracciare in un unico contesto musiche diverse ed "antiche", improvvisarci sopra e rimanere coerenti con se stessi. Nessuna magia, nessun mistero, basta solo sedersi - mai troppo comodi - looking back, playing forward e godersi le proprie emozioni.



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Art by
(1901 – 1970)
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The Freexielanders

Aurelio Tontini, trumpet
Giancarlo Schiaffini, trombone
Eugenio Colombo, alto sax
Errico De Fabritiis, tenor sax
Alberto Popolla, clarinet, alto clarinet
Francesco Lo Cascio, vibraphone
Gianfranco Tedeschi, double bass
Nicola Raffone, drums


Looking Back, Playing Forward
Rudi Records
Cat # RRJ1032
Recorded the 13-14th December 2015 by 
Lucio Leoni, Monkey Studios, Rome
Mixed and mastered April 2016, 
Francesco Lo Cascio & Lucio Leoni, Monkey Studios, Rome
Cover photo by Alessandro Carpentieri

Tracklist:

St. James Infirmary/Gotta get to St. Joe (Joe Primrose/Joe Bishop) (7:59)
On the Banks of the Wabash (Paul Dresser) (6:10)
Peer’s Country Song (Misha Mengelberg arr. by E. Colombo) (4:19)
Come Sunday (Duke Ellington, arr. by G. Schiaffini) (6:04)
Voci del Deserto (Felice Montagnini) (5:20)
Mood Indigo (Duke Ellington, arr. by G. Schiaffini) (5:08)
Black Maria (Fred Rose) (5:51)
Yardbird Shuffle (James A. Noble) (4:35)
Cannonball Blues (Jelly Roll Morton, arr. by E. Colombo) (4:31)
Sabor de Habanera (Giancarlo Schiaffini) (3:50)
The Great Crush Collision March (Scott Joplin, arr. G. Schiaffini) (4:50)


1 commento:

  1. Pienamente d'accordo, uno dei migliori dischi del 2016, ho colpevolmente mancato di recensirlo o aklmeno citarlo, ma visto che ci hai pensato tu, alla fine molto, molto meglio così :)

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