lunedì 12 settembre 2016

Kamasisì Kamasinò

ovvero, la situazione del jazz italiano prima e dopo Paolo Fresu


Molti anni fa, fu dato alle stampe un libro autoprodotto dallo stesso autore con il titolo “Storia del Jazz Moderno Italiano – i Musicisti”. 

Io, come sempre affamato di schede biografiche e di discografie sul jazz suonato ed inciso nel nostro Paese, all'epoca l’ho cercato con avidità e, una volta trovato, mi sono appassionato più alla manciata di pagine introduttive che al resto del libro (che comunque ho utilizzato spesso per le mie ricerche).


Questo perché Arrigo Zoli decise di spiegare l’origine e la veridicità del suo lavoro (240 schede biografiche e più di 100 pagine di discografia) con 12 tabelle statistiche iniziali, in cui profilava e classificava una serie di aspetti concreti de “i Musicisti”, che andavano dall’età media alla provenienza geografica, dalla formazione musicale alla cultura personale extramusicale, dalla classificazione in Jazzisti, Professionisti-Jazzisti e Professionisti alla delicata questione dei guadagni dei musicisti e via discorrendo, non trascurando nemmeno l’Astrologia.


A questo punto, direte voi, cosa c’entra il titolo di questo post, cosa c’entra Kamasi Washington e cosa c’entra Paolo Fresu???
Lo ammetto, il titolo è un pretesto (ma non pretestuoso, per cui si astengano Troll, Haters e Webeti) ma di affinità ce ne sono…

Ad esempio, le energie dedicate nel valutare la musica di Kamasi come sincera o bufala, potremmo dedicarle ad altro di più utile e concreto, tipo il rapporto che corre tra passione personale e distribuzione globale? o alla necessaria analisi sul perché sia “normale” adeguare il proprio linguaggio ai tempi per rendere un prodotto creativo un veicolo più efficace di comunicazione (lo stesso dicasi per quanto riguarda l’innesto Hip-Hop sul disco di Lehman, se è più o meno coerente di quello rap su “On The Corner” di Miles e bla bla bla)?;
Allo stesso tempo è inconfutabile il fatto che Paolo Fresu possa essere considerato uno spartiacque nel jazz italiano, non solo perché “Ostinato” – primo disco a nome del Quintetto di Paolo - usciva nel 1985, stesso anno di stampa del libro di Zoli, ma perché se è innegabile il lavoro di Fresu in termini artistici, bisogna ammettere che è encomiabile anche il suo impegno in termini di progettualità e visibilità di questa musica, nel mondo e tra le istituzioni, a volte a discapito della più pura analisi musicale.


E quindi, direte voi?!?
E quindi nulla, rispondo io, che da appassionatucolo che tiene in piedi un vecchio blog più tirandolo per i capelli che per costruttiva proposta, che solo raramente ha incrociato le vie istituzionali dell’argomento - come per il Top Jazz o per la curatela del libro Jazz Inchiesta Italia di Enrico Cogno – avrei solo il desiderio di leggere un aggiornamento di questi dati, un nuovo approfondimento di questa analisi – visto che negli ultimi trent’anni il panorama è mutato notevolmente – e nient’altro.

Ma se io fossi un critico a tempo pieno, un musicista professionista, un serio addetto ai lavori beh, io troverei doveroso e necessario conoscere lo stato della mia sfera lavorativa, i miei diritti, il posizionamento economico rispetto ai colleghi comparabili, le opportunità future in proiezione e quant’altro.


Per esempio Zoli documenta che, suddividendo i musicisti per tipo di formazione si ha la seguente distribuzione (su 240 musicisti “indagati” nel libro):
- prevalentemente autodidatti                      74, corrispondenti al 30,8%
- ricevuto lezioni private                               72, corrispondenti al 30,0%
- diplomati in Conservatorio                        42, corrispondenti al 17,5%
- frequentato Conservatorio o equiv.          52, corrispondenti al 21,7%

Situazione che oggi è sicuramente cambiata, se non ribaltata, ma quali sono i dati voi lo sapete?


Oppure, rispetto a quanto guadagnano i musicisti di jazz, dice: 
«Le fonti sono: i concerti, le serate nei clubs, i dischi, i seminari, l’insegnamento nelle scuole di jazz, le collaborazioni radiotelevisive, l’attività di dimostratore, eventuali pubblicazioni.
- I concerti-serate (teatri, festivals, ecc) sono per un musicista affermato la fonte principale di reddito; circa la loro frequenza annua (nell’ultimo periodo) ritengo il quadro seguente sufficientemente prossimo al vero: una decina riescono a superare il centinaio di date, 20/30 si attestano tra i 50 ed i 100 concerti, i rimanenti si muovono in un arco che va dai 10/20 al massimo ai 50; il cachet per un concerto si aggira mediamente dalle 100.000 alle 250.000 ( da ca 130€ a ca 320€, secondo la tabella comparativa de “Il Sole 24 Ore”), in funzione della notorietà del musicista con qualche eccezione per particolari manifestazioni.
- Le serate nei clubs, in genere utili per tenersi in esercizio, per provare relazioni con nuovi musicisti o nuovi brani: quando l’attività ha una cadenza settimanale, può rappresentare un discreto arrotondamento; i cachets vanno dalle 15.000 alle 40.000 lire (da ca 19€ a ca 51€).
- Il disco, a differenza delle fonti precedenti, è un argomento ad alto grado di variabilità, nel senso che non sono normalmente previsti cachets più o meno standard, almeno per i musicisti italiani; ogni disco è un fatto a sé: c’è il musicista che incassa una cifra forfettaria, che non supera di norma l’ordine di alcune centinaia di migliaia di lire, c’è quello che riceve in cambio un certo numero di copie del disco inciso e c’è quello, in genere, che deve garantire l’acquisto di un quantitativo di copie, se non anche pagare i colleghi sidemen, per rifondere il discografico di parte o di tutte le spese di registrazione e di stampaggio [...]».


Allora io mi domando: è ancora attuale questa indagine? Ci siamo evoluti, come è lecito che sia? I gestori dei locali e/o direttori dei Festival garantiscono la sostenibilità del circuito e, soprattutto, mantengono le promesse oppure non pagano, come si legge spesso? La SIAE, che ultimamente sembra essere tornata ad essere parte integrante del discorso culturale, ancorché produttivo, tutela i giovani musicisti o, a parte i venerati Maestri, lo fa sulla carta, come fa l’INPS per i lavoratori salariati?


Ecco, di questo non sento mai parlare, eppure dovrebbe essere importante quanto parlare di rifiuti a Roma, di Razzi&Rengi, di burkini o camicie della Coop… e guardate che il tema è trasversale e sfaccettato più di quanto immaginiamo, perché abbraccia chi recensisce dischi, chi produce libri, chi cura i rapporti con la stampa e bla bla bla, non solo nel ristretto orticello del jazz, ma in tutta la professione culturale, ed invece noi lì a parlare di Kamasisì Kamasinò


Che fare allora? Io cerco sempre, ma ricordo di trovare poche cose così dirette e necessarie, tipo l’Inchiesta sui Festival che apparve su AAJ (purtroppo sparita con la nuova veste del sito) a firma di Enrico Bettinello (oramai penna tra le più influenti del panorama culturale e da sempre comunicatore interessantissimo), qualche domanda indagatrice ed un po’ più spigolosa (e quindi quasi sempre abilmente schivata) da parte di Nicola Gaeta sul suo “Una Preghiera tra Due Bicchieri di Gin” e cos’altro?

Magari sono io che sto perdendo colpi rispetto alla mia memoria, ma vi prego di aiutarmi se così fosse…


In un momento in cui il jazz (madoòo, l’avrò scritta cento volte ‘sta parola…) si allarga a macchia d’olio nel mare magnum culturale, la professione è più trasparente e permeabile di prima o rimane sempre inquinata dalla legge del profitto, dal residuo comodo/funzionale del dilettantismo e dalla sfegatata passione per cui si fa tutto a gratis?


La MIDJ, ora che è finalmente guidata da una donna, riuscirà a gestire i diversi temi contemporaneamente con la forza e l'eleganza tipica di Ada, o dovrà pagare pegno ad una cultura maschilista che si appropria dei diritti e si dimentica dei doveri?


L’editoria di settore, sparuta in due riviste ufficiali (più l’ultimo Classic arrivato), si porrà anche - e finalmente - come strumento di verifica e di controllo della produzione artistica o resterà ai margini della faccenda per non giudicare e quindi non rischiare?


C’è la totale mancanza di una cultura del lavoro culturale in Italia (per non parlare di una coscienza di classe), dice Christian Raimo in un "vecchio" ma pur sempre attuale testo sull’editoria con uno splendido titolo.

Io dovrei quindi essere contento di fare un altro lavoro, o continuare a cercare come cambiare le cose?


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